La “Manna” Delle Nostre Montagne

Ricordare il tempo che fu senza fare accenno a quella che, molto probabilmente, è stata la più importante fonte di sussistenza alimentare di questi luoghi è quasi come rinnegare il nostro passato, la nostra identità. È grazie all’abbondante presenza di questo frutto, infatti, che nelle nostre montagne generazioni di uomini, donne e bambini poterono sopravvivere dignitosamente nonostante le privazioni e le ristrettezze di quelle epoche.
Il castagno è una pianta della famiglia delle “fagacee”, il suo habitat copre una fascia che va dai 300 ai 700 m di altitudine ed è tipica delle regioni medie collinari mediterranee.
Il frutto è custodito all’interno di una sacca (il riccio) che, esternamente, è completamente ricoperto da fitti aculei pungenti (foto 1). La castagna è avvolta da una morbida pellicola interna sottile e pelosa e da una buccia esterna più rigida e lucida color marrone.
Il periodo di raccolta delle castagne è quello autunnale (dalla fine di settembre ai primi di novembre), quando il frutto ormai maturo si schiude dal riccio e cade a terra. Al termine del raccolto si trasportano le castagne all’interno del “caniccio” o “metato” (l’edificio in cui si effettua la complessa operazione d’essiccazione) (foto 2); i frutti, una volta sistemati all’interno del “caniccio”, sono adagiati su una specie di graticcio (foto 3) sotto il quale per circa un mese arde ininterrottamente un fuoco di braci che porta le castagne, in questo periodo più volte rimescolate per uniformarne il processo, alla loro completa seccatura. Finita quest’operazione vengono tolte dal “metato” e fatte passare dentro ad un macchinario (foto 4) che provvederà ad asportarne la buccia (foto 5). Il processo prende il nome di “pestatura” e prima dell’avvento di questi macchinari era un’operazione eseguita completamente a mano (foto 6), dopodiché, le castagne completamente sgusciate, sono scelte ad una ad una (cèrnita) in modo da poter eliminare quelle scadenti o essiccate male (foto 7). Solo a questo punto si può passare all’ultima fase di questo lungo processo di trasformazione: le castagne secche vengono portate al mulino (foto 8, foto 9) dove, sapientemente macinate (foto 10), vengono ridotte in una farina dall’alto contenuto nutrizionale.
Ancora oggi alcuni abitanti di San Mommè continuano questa faticosa opera, certamente non per questioni economiche né tantomeno alimentari, ma soltanto per il gusto e la passione di tramandare nel tempo questa nobile arte che per secoli e fino a non più di ‘70 – ‘80 anni fa, ha rappresentato la principale e quasi unica fonte alimentare per intere popolazioni della “Montagna Pistoiese”.
Molti sono i modi per cuocere le castagne: le “frugiate” o “caldarroste” sono arrostite sulla brace in una speciale padella bucata, i “ballotti” sono bolliti in acqua aromatizzata con il finocchio, le castagne “glacè” sono candite con lo zucchero; per quanto riguarda invece la farina le applicazioni culinarie più conosciute sono: il “castagnaccio” (dolce con pinoli e rosmarino), i “necci (sorta di frittelle cotte in particolari stampi di terracotta impilati l’uno sull’altro detti “testi”) da gustarsi da soli o con la ricotta, oppure, la “polenta dolce”, che, ad esempio, per gli amanti dei contrasti “forti”, può essere consumata con una frittata di salsicce o con del costolato cotto sulla brace.

Testo di Leonardo Guidi